Adriano Sofri

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Adriano Sofri

Adriano Sofri (1942 – vivente), giornalista, scrittore e attivista italiano.

Citazioni di Adriano Sofri[modifica]

Citazioni in ordine temporale.

  • Pasolini conosceva – di più, ne era specialista – un segreto che noi intravedemmo solo grazie al femminismo: il segreto dei corpi. Che noi non abbiamo, ma siamo un corpo. Che quando facciamo l'amore, mangiamo, giochiamo a pallone, pensiamo pensieri e scriviamo poesie e articoli di giornale, è il nostro corpo che lo fa. Pasolini riconosceva il proprio corpo, e dunque quelli degli altri. Sapeva che esistono i popoli, le nazioni, le classi, le generazioni, e una quantità di altri vasti ingredienti della vicenda sociale, ma li guardava al dettaglio nel modo di camminare e di pettinarsi, di urtarsi per gioco o di ghignare per minaccia. Si sentiva in dovere di essere marxista, ma il suo era un marxismo delle fisionomie, dei gesti, dei comportamenti e dei dialetti.[1]
  • I decenni volano, sono certi pomeriggi che non passano mai.[2]
  • Negli scorsi giorni un altro politico eminente, Luca Coscioni, presidente del Partito radicale, aveva saputo di non essere stato ammesso a far parte di un Comitato bioetico, mancandogli, se ho ben capito, i requisiti accademici. Coscioni, che era per professione scelta un economista e docente, è diventato poi per necessità un impaziente ammalato di sclerosi amiotrofica laterale, e ne è diventato esperto di quella doppia competenza che viene dall'esperienza sofferta e dallo studio metodico. Si sarebbe detto che nessuno avesse titoli più completi dei suoi per entrare in quell'impegnativo comitato, presieduto del resto da una degna persona come Giovanni Berlinguer, se non sbaglio. Invece ne è restato fuori. Nessuna obiezione, purché non si ripeta che non aveva i titoli: si dica francamente anche per lui che è stato portato fuori dai commessi.[3]
  • Perché in questo caso è così difficile assicurare il tiranno vivo a una cella per il resto dei suoi giorni? In verità, si direbbe che il tiranno, l' arte del tiranno, sia ancora troppo affascinante agli occhi di tanti suoi nemici. Assicurarlo a una prigione normale, senza privilegi e senza torture, una prigione mediocre — questo si addirebbe alla democrazia. La si vuole esaltare, invece, in una cerimonia stupefacente, un carnevale della ferocia detronizzata, un Saddam Hussein appeso prima per il collo poi per i piedi, per così dire, davanti agli stessi occhi che si abbassavano terrorizzati dal suo arbitrio.[4]
  • La peggiore delle tirannidi non è quella che uccide i suoi sudditi: è quella che arriva a impedire loro perfino di uccidersi.[5]
  • Di nessun atto terroristico degli anni Settanta mi sento corresponsabile. Dell'omicidio Calabresi sì, per aver detto o scritto, o per aver lasciato che si dicesse e si scrivesse, "Calabresi sarai suicidato".[6]
  • [Siniša Mihajlović] Lui ha usato e abusato del suo ruolo sportivo per esaltare le sue opinioni, e poiché i suoi idoli erano Arkan e le tigri serbiste e le loro imprese criminali, mi sembra difficile che ideali simili non influiscano sul modo di considerare l'agonismo sportivo e la formazione dei campioni a lui affidati.[7]
  • Icaro mi fa tornare in mente il volo di Lauro De Bosis, che dovrebbe esserle carissimo. Era nato nel 1901 e aveva poco più di vent'anni quando fu invitato a New York e avvertì gli americani dell'infamia della dittatura fascista: proprio come fece poi il Gaetano Salvemini cui lei si ispira, e che fu fra gli amici di Lauro. Nel 1926 insegnò a Harvard e nel 1927 scrisse il poema intitolato così: "Icaro". I suoi famigliari e collaboratori furono arrestati mentre lui tornava dall'Italia in America. Si fermò a Parigi, faceva il portiere d'albergo, traduceva, studiava, preparava antologie di poeti, imparava a guidare l'aereo. Nel 1931 una sottoscrizione gli consentì di acquistare un piccolo velivolo e di caricarlo di volantini. Il 3 ottobre decollò da Marsiglia, arrivò sopra Roma, scese a una quota bassissima, versò su piazza Venezia e sul resto del centro 400 mila manifestini. Aveva preparato tre testi diversi. In uno si leggeva fra l'altro: "Chiunque tu sia, tu certo imprechi contro il fascismo e ne senti tutta la servile vergogna. Ma anche tu ne sei responsabile con la tua inerzia.Non cercarti un'illusoria giustificazione col dirti che non c'è nulla da fare. Non è vero. Tutti gli uomini di coraggio e d'onore lavorano in silenzio per preparare un'Italia libera". De Bosis sapeva che il carburante non gli sarebbe bastato per il ritorno. Precipitò in mare vicino all'isola d'Elba, Icaro di se stesso. La notte prima aveva scritto una "Storia della mia morte". Non era invasato di morte, come gli assassini-suicidi delle Torri. Pensava semplicemente che bisognasse. "Mentre, durante il Risorgimento, i giovani pronti a dar la vita si contavano a migliaia, oggi ce ne sono assai pochi. Bisogna morire. Spero che, dopo me, molti altri seguiranno, e riusciranno infine a scuotere l'opinione". La sua compagna, la famosa attrice Ruth Draper, intitolò a lui una donazione per una cattedra di italianistica a Harvard. Quel Gaetano Salvemini vi tenne le sue famose lezioni sulle origini del fascismo.[8]

Dalla prefazione di Proibito parlare

Anna Politkovskaja (2007), a cura di Erika Casali, Martina Cocchini e Davide Girelli, Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2022. ISBN 978-88-04-75671-2.

  • Potete trovare in rete qualche sequenza del funerale. C'era un migliaio di persone. Nessun rappresentante del governo russo, nessuna pubblica autorità. Putin era andato a Dresda, e lì stava stringendo la mano alla signora Merkel, molto commosso, perché in quella città aveva avuto negli anni Ottanta il suo apprendistato estero di agente del KGB – Putin si commuove sempre al ricordo del KGB. Non un solo rappresentante dei governi europei, nemmeno a titolo personale, si è fatto vedere, tanto meno dell'Unione – tuttavia il Parlamento europeo in seduta plenaria ha tributato l'omaggio di un minuto di silenzio alla memoria di Anna Politkovskaja. Non c'erano picchetti d'onore, né musiche da requiem o cantate al nome di Giovanna d'Arco, non premi Nobel né scrittori internazionali né leader dei movimenti per la pace, né una qualunque segretaria del segretario dell'ONU. (C'era Marco Pannella, e vada detto a suo merito.) Le Madri di Beslan, le Madri cecene, le Madri di soldati russi – forse ce n'era qualcuna: col cuore dovevano esserci in tante. Uscendo dall'incontro con la Merkel, Putin ha poi avvertito che la giornalista assassinata «aveva un'influenza minima sulla vita politica russa», e che «il suo assassinio reca più danno alla Russia e alla Cecenia che qualunque dei suoi articoli». I telegiornali governativi russi non hanno parlato del funerale; il canale Rossija ha dedicato mezzo minuto a una notizia sullo stato delle indagini.
  • Della Russia di oggi, ci si chiede se una mezza democrazia sia migliore o peggiore di una dittatura intera.
  • Conoscere Anna Politkovskaja voleva dire sapere che gli assassini la braccavano. Non importa da dove: dal Cremlino o dagli stati maggiori, dal despota fantoccio della Cecenia o dalla deriva di gruppi e agenti segreti a metà fra il servizio al capo e i lavori in proprio, o da quale altro covo di brava gente patriottica, razzista e gonfia di odio.
  • Non solo non sappiamo proteggerle, le persone sulla cui porta l'odio e la menzogna hanno tracciato un segnale per gli assassini, ma ridiamo di loro, o esitiamo a resistere a chi ne ridicolizza la voce. [...] quando Anna denunciò d'essere stata avvelenata, si scherzò sulla sua megalomania o sulla sua paranoia. Si dava delle arie. E poi, addirittura, il veleno, come nelle favole e nei romanzetti. Aveva bevuto un tè, aveva avuto un mal di pancia, magari aveva paura di andarci davvero, a Beslan, e si era inventata vittima di un torbido complotto. Oggi si ride a denti più stretti delle storie di avvelenamenti, dopo che il tallio e il cesio e ora, trionfo della chimica politica, il polonio, hanno dispiegato la loro compiaciuta efficienza con un capo di Stato come Yuschchenko o un ex membro della confraternita come Litvinenko. C'era stato in Cecenia, un vero temibile terrorista islamista arabo, Khattab, ucciso dai russi col mezzo fiabesco di una lettera avvelenata. L'antica Tredicesima Sezione del sovietico KGB, riconvertita nel russo FSB, ha sempre vantato un curriculum di efficienza e fantasia negli omicidi a distanza. Casomai, dopo il tè di Rostov, la piccola sporca sparatoria in ascensore aggiungeva una nota di impazienza e di disprezzo al disbrigo della pratica di Anna.
  • Spaventoso è il numero dei giornalisti ammazzati in Russia – tre, e dei più in vista, solo della «Novaja Gazeta», il giornale di Anna. Ma senza niente togliere al loro sacrificio, in Anna è stato colpito qualcosa di più della libertà di stampa. In un'occasione, Anna dichiarò di aver messo a frutto la professione di giornalista per stare dalla parte delle vittime, e, quando fosse possibile, per portare loro aiuto. Lo fece davvero, che si trattasse di tenere per mano i vecchi da evacuare dall'ospizio di Groznyj abbandonato sotto il bombardamento, o di rifocillare con qualche bevanda gli ostaggi del teatro di Mosca prima della mattanza.
  • Ci sarà, forse, un giorno, un tribunale anche per i crimini di guerra in Cecenia. Gli articoli di Anna ne formeranno gli atti, e anche la sua vita e la sua morte.
  • Nonostante un'emancipazione femminile così spinta nell'URSS, il maschilismo della leadership sovietica prima e russa poi è restato fortissimo. Se Eltsin si illustrò per episodi imbarazzanti di gallismo traballante, Putin ha portato nello stile presidenziale un madornale virilismo da caserma. È significativo che agli occhi del mondo l'intrepida opposizione al virilismo di Putin si sia incarnata in una donna minuta e inerme come Anna, e che a spegnerne la voce sia occorsa la viltà di un sicario.
  • I ceceni sono il più fieramente patriarcale fra i popoli, e il maschilismo islamico si è sovrapposto solo come un recente e superficiale piano rialzato a una tradizione assai più antica e profonda di eroismo guerriero personale e nazionale. L'autorità degli anziani, l'audacia ribelle e irriducibile del brigante – l'abrek – l'onore guerriero, hanno tenuto il primo posto in questo piccolo popolo, sia quando si batteva fieramente contro il russo ubriacone, sia quando si arruolava nella prima fila sotto le bandiere russe, come per l'ultima volta in Afghanistan. I ceceni, mi ha detto in un villaggio uno di quegli anziani al cospetto dei quali i giovani non avrebbero mai osato mettersi a sedere, sono stati creati da Allah per stare come un moscerino nell'occhio dei russi. E la potenza colossale della Russia diventa furiosa con quel moscerino, i suoi capi grondanti di medaglie e galloni ne vengono mortificati e irrisi, la loro vanità di maschi umiliata in un torneo di galli.
  • Questa è la cifra di Anna, testimone e partecipe dei disastri della guerra. [...] Conosce l'ignobiltà, la prepotenza, e comunque l'impotenza e l'infantilismo dei giochi dei guerrieri, li svela, li rivela, li mette a confronto e ne segnala il vicolo cieco, ma è con le persone, con le donne, coi bambini, coi vecchi dagli occhi arrossati, con le madri dell'una e dell'altra parte che sta. Trovate poche generalità nei suoi scritti, così ostinati e incalzanti: trovate invece le persone e le loro storie tenacemente, minuziosamente, prolissamente seguite in ogni dettaglio, con una pazienza deliberata sotto la quale ribolle lo sdegno e la compassione.
  • Anna sta davvero all'altro capo del mondo in cui spadroneggia Putin, e, dopo essersi guadagnata l'onore di associare al proprio nome il nome di un popolo martoriato, sicché non si possa nominare la Cecenia senza pensare a lei, e lei senza pensare alla Cecenia, si è anche guadagnata, impresa assai più ardua e malvista, il titolo di rappresentante dell'altra Russia. Benché in una minoranza che si è fatta in certi momenti così esigua da metterne a repentaglio l'incolumità stessa, alcuni russi hanno continuato a capire che in Cecenia non si trattava solo di soccorrere un popolo schiacciato, ma di riscattare la buona anima della Russia.

Da Quella di Nicolai Lilin non è la vera storia

Recensione di Ucraina. La vera storia di Nicolai Lilin, Ilfoglio.it, 19 novembre 2022.

  • Ho [...] l'impressione che l'intero libro sia una frettolosa ricucitura di pezzi indipendenti l'uno dall’altro e risalenti in gran parte al periodo immediatamente successivo al 2014, appena aggiornati da qualche inserto.
  • Lenin è promosso a sincero campione dell'autodeterminazione dei popoli. L'holodomor è ridotto a un capitolo della carestia che ha colpito l'intero territorio sovietico. [...] Il rapporto fra persecuzione e risveglio dello spirito nazionale, e nazionalista, è ignorato, così per l'holodomor e la distruzione dell'intelligenza ucraina alla fine degli anni Venti, come per la guerra di oggi e i suoi effetti ottocenteschi ed europeisti. L'Ucraina indipendente dal 1991 è il regno del nazismo militante e del parassitismo degli oligarchi, che ha eclissato quello di Mosca.
  • C'è un argomento ricorrente nel testo, così come nella generalità delle posizioni di chi sostiene che l'Ucraina non esiste se non come un arto amputato della madre russa, e ne deriva il sacrificio chirurgico di bombardarlo. Che l'Ucraina non abbia altre fondamenta se non le "radici russe", e che pretendendo di fondarsi "sulla differenza dai russi, non fanno che confermare di essere legati saldamente al popolo russo". Argomento grazioso, che riconduce all'impossibilità di essere antifascisti quando vengano a mancare le radici fasciste...

Da Il ricordo di Antonio Russo e il nuovo grido dei ragazzi ceceni

Su Antonio Russo, Ilfoglio.it, 18 ottobre 2023.

  • Era andato, di proprio iniziativa, senza tessera dell’Ordine in tasca, perché non credeva nell’Ordine, nei posti più impervi della terra, si era fatto esperto di guerre. Era diventato dei più apprezzati corrispondenti di Radio Radicale, per la passione che metteva nel lavoro, la generosità e il coraggio, la simpatia per il suo prossimo.
  • Tutti gli elementi raccolti sulla sua morte portavano a una responsabilità dei servizi della Federazione russa.
  • La madre di Antonio è morta nel 2011. Si chiamava Beatrice Russo – come la ragazza del Postino di Neruda. Era una donna colta e libera. Si impegnò con dedizione a difendere la libertà di stampa e a provare la verità su Antonio, sapendo che non sarebbe successo.

Incipit di Memoria[modifica]

Signor Presidente, signor giudice a latere, gentili signore e signori giudici popolari,
ho partecipato con ogni diligenza a questo processo, perché ne va della mia vita, per così dire. Non dirò della mia vita futura; ma piuttosto della passata, più cara e vulnerabile. Nelle pagine che seguono vi affido alcune delle informazioni e degli argomenti che mi sono stati suggeriti dallo svolgimento del processo. Sono troppe pagine, e insieme troppo poche, per quello che vorrei dire. Inoltre, poiché cercano di rispondere alle argomentazioni finali delle varie accuse, sono affrettate e disordinate. Di questo mi vorrete scusare.

Citazioni su Adriano Sofri[modifica]

  • Da noi esiste un signore, Adriano Sofri, che è stato condannato a 22 anni di reclusione per l'assassinio sotto casa di un commissario di polizia, dopo nove processi, di cui uno, caso rarissimo in Italia, di revisione, avendo quindi goduto del massimo di garanzie che uno Stato può offrire a un suo cittadino. Eppure Sofri ha scontato solo sette anni di carcere e, senza aver potuto usufruire dei normali benefici di legge, che non scattano dopo solo sette anni su ventidue, è libero da tempo, e scrive sul più importante quotidiano della sinistra, La Repubblica, e sul più venduto settimanale della destra, Panorama, e da quelle colonne lui ci fa quotidianamente la morale ed è onorato e omaggiato dall'intera intellighentia che, ad onta di tutte le sentenze, lo ritiene, a priori e per diritto divino, innocente. (Massimo Fini)
  • Di quel gruppo di talenti e di figure in cui s'è specchiato il meglio di una generazione, resta comunque eccezionale il personaggio Sofri. Ho detto prima di [Claudio] Rinaldi e di [Renato] Mieli, e del loro accorto equilibrio tra la fedeltà alla loro generazione e l'esercizio implacabile del principio di prestazione e di efficacia. Se c'è uno invece che giudica il principio di prestazione men che zero è Sofri, uno che pure è capace di splendide prestazioni intellettuali. A lui la riuscita, la carriera, il collocamento gerarchico nella zona nobile di un'istituzione riconosciuta, a lui tutto questo significa men che zero. Lui mira molto più in alto. Gli interessa esercitare l'imperio sulle anime, che gli siano devoti quelli che stanno dalla parte del Bene. Lui sì che era e resta «sessantottino», con quel di eroico che il termine comporta, ma senza quel che di limitato e di intellettualmente miserevole c'è in tanti altri reduci del Sessantotto. (Giampiero Mughini)
  • In quegli anni la vita l'abbiamo vissuta spontaneamente, nessuno sapeva quel che sarebbe accaduto dopo. Quando Lotta continua si è sciolta, quando abbiamo capito che erano pie illusioni, ognuno è tornato nel proprio ruolo: lui è tornato a fare il professore, io l'operaio. Era naturale. (Leonardo Marino)
  • Nei suoi articoli per «La Repubblica» Adriano Sofri è talvolta verboso, prolisso, disordinato, ma lo leggo ogni volta con attenzione, coinvolgimento e spesso con ammirazione anche perché sa esprimersi con fulminea concisione. (Morando Morandini)
  • Secondo me la sua forza è stare in prigione. [...] Se esce ha meno tempo di scrivere. [...] Non vuole chiedere la grazia. In prigione fa quello che vuole, è trattato con guanti bianchi, scrive quanto vuole quello che vuole, guadagna un sacco di soldi e vive gratis. Mi pare una situazione accettabile. (Giovanni Sartori)
  • Sono orgogliosa di avere come nonno dei miei figli un uomo che ha ingiustamente subito una condanna a 22 anni di carcere per qualcosa che non ha commesso, e che è sempre rimasto la persona straordinaria che è. (Daria Bignardi)

Note[modifica]

  1. Da Pasolini, scandalo senza eredi, la Repubblica, 3 novembre 2000.
  2. Citato in Che pomeriggi azzurri e vuoti, la Repubblica, 29 gennaio 2003, p. 32.
  3. Citato in Luca Coscioni, Il maratoneta, a cura di Matteo Marchesini e Diego Galli, Stampa Alternativa, 2005, p. 155.
  4. Da Il tiranno e il suo boia, la Repubblica, 7 novembre 2006, p. 1.
  5. Da Tristi e consolati, la Repubblica, 14 novembre 2008.
  6. Citato in Dissi 'Calabresi sarai suicidato', Corriere della Sera, 8 gennaio 2009.
  7. Da Piccola posta, Il Foglio, 28 maggio 2010.
  8. Da Una mia vecchia lettera non spedita a Oriana Fallaci, Il Foglio, 29 marzo 2016.

Bibliografia[modifica]

  • Adriano Sofri, Memoria, Sellerio, 1990.

Voci correlate[modifica]

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