Mika Waltari

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Mika Waltari nel 1958

Mika Toimi Waltari (1908 – 1979), scrittore finlandese.

Incipit di alcune opere[modifica]

Sinuhe l'egiziano[modifica]

Io, Sinuhe, figlio di Sennut e di sua moglie Kipa, scrivo questo. Non scrivo per la gloria degli dei della terra di Kem, poiché sono sono stanco di dei, né per la gloria dei Faraoni, poiché sono stanco delle loro gesta. Scrivo non per timore né per alcuna speranza di futuro, ma per me stesso soltanto.[1] Durante la mia vita ho veduto, conosciuto, perduto troppo per diventare preda del terrore vano, e per ciò che riguarda la fede nell'immortalità ne sono altrettanto infastidito quanto lo sono dagli dèi e dai re. Scrivo queste pagine unicamente per piacere mio, e in ciò differisco da ogni altro scrittore passato e che verrà.
Inizio questo libro nel terzo anno del mio esilio sulle spiagge del Mare Orientale, donde salpano le navi per il paese di Punt, in prossimità del deserto, in prossimità di quelle colline da cui venne cavata la pietra per le statue degli antichi re. Scrivo queste pagine perché il vino è amaro al mio palato, perché ho perduto ogni piacere delle donne e perché né i giardini né gli stagni abbondanti di pesci mi danno più alcun diletto. Ho scacciato i cantori, e il suono dei flauti e degli strumenti a corda è tormento al mio orecchio. Perciò scrivo questo, io, Sinuhe, al quale più non interessano le ricchezze, le coppe d'oro, l'ebano, l'avorio e la mirra.
Queste cose non mi sono state tolte. Gli schiavi temono ancora la mia verga; le guardie inchinano il capo e tendono la mano innanzi a me sino a terra. Ma impedimenti sono stati posti al mio cammino e nessuna nave può approdare entro la risacca di queste spiagge, e mai più respirerò l'odore della Terra Nera in una notte primaverile.
Un tempo il mio nome fu scritto nel libro d'oro del Faraone, e io sedevo alla sua destra. Le mie parole avevano più forza di quelle dei potenti del paese di Kem; i nobili mi inviavano doni, e al mio collo appendevano catene d'oro. Possedevo tutto ciò che un uomo può desiderare, ma essendo uomo desideravo di più. Perciò sono quello che sono. Fui scacciato da Tebe durante il sesto anno di regno del Faraone Horemheb, per essere battuto a morte come un cane se fossi ritornato... per essere spiaccicato come una ranocchia tra le pietre se avessi osato muovere un passo oltre la zona che era stata delimitata come mio luogo di abitazione. Questo fu per comando del Re, del Faraone che un tempo era stato mio amico.
Ma prima di iniziare questo libro lascerò che il mio cuore gridi i suoi lamenti, poiché così deve gridare un cuore di esiliato quando è oppresso dal dolore.
Colui che ha bevuto una volta l'acqua del Nilo anelerà in eterno a ritornare nuovamente presso le sue sponde; nessun'acqua di nessun altro paese potrà placare la sua sete.
Vorrei scambiare la mia coppa per una ciotola di argilla grezza, purché i miei piedi potessero ancora una volta calpestare la soffice polvere del paese di Kem. Sarei pronto a barattare le mie vesti di lino per le pelli di uno schiavo se ancora una volta mi fosse dato di udir frusciare al vento della primavera le canne del fiume.
Chiare erano le acque della mia giovinezza; dolce era la mia follia. Aspro è il vino della vecchiezza, e il favo più dolce non saprebbe compensare il rozzo pane della mia povertà. Volgetevi, o anni... rifluite di nuovo, o anni svaniti... veleggia, Ammon, da oriente a levante attraverso i cieli e riconducimi la mia giovinezza! Non una parola io muterò, non altererò il mio anche minimo atto. Fragile calamo, levigato papiro, ridatemi la mia follia e la mia giovinezza!

L'angelo nero[modifica]

Oggi vi vidi e vi parlai per la prima volta. È stato come un terremoto, tutto era sconvolto nel mio animo, le profondità del mio cuore si spalancarono ed io non ritrovai più la mia natura caratteristica.
Ho quarant'anni e ritenevo di aver raggiunto l'autunno della mia vita.
Avevo viaggiato molto, in paesi lontani e vissuto molte vite. Il Signore mi aveva parlato, palesandosi a me in molti modi; a me gli angeli si erano rivelati e non vi avevo creduto. Ma quando vi ho vista, non ho potuto fare a meno di credere, per il miracolo di cui mi è stata concessa la grazia.
Vi vidi di fronte alla chiesa di Santa Sofia, accanto alle porte di bronzo. Era il momento dell'uscita, dopo il proclama del cardinale Isidoro che, nel silenzio generale, aveva annunciato in latino e greco l'Unione delle Chiese. Celebrando la Messa che seguiva, recitò il credo e quando giunse alla frase «e dal Figlio», molti fedeli si coprirono le facce, mentre da parte delle donne nelle gallerie si poterono udire singhiozzi e gemiti.
Me ne stavo sulla calca, in una navata laterale, dietro ad una colonna di pietra grigia; toccandola, sentii che era umida, come se persino le fredde pietre del tempio traspirassero la loro angoscia.[2]

Trums l'etrusco[modifica]

Io, Lars Turms, l'immortale, mi svegliai alla primavera e vidi che la terra era nuovamente rifiorita.
Mi guardai intorno, contemplai la mia splendida dimora, vidi l'oro e l'argento, le statue di bronzo, i rossi vasi sfigurati, le pareti dipinte, ma non provai orgoglio; come può infatti un immortale possedere alcunché?
Tra miriadi di oggetti preziosi scelsi un umile recipiente di argilla e per la prima volta in tanti anni ne versai il contenuto nel palmo della mano e lo contai. Erano le pietre della mia vita.
Posai quindi il recipiente ai piedi della dea e percossi uno scudo di bronzo. I domestici entrarono silenziosi, mi dipinsero il volto, le mani e le braccia col rosso sacro e mi vestirono della sacra tunica.
Poiché avevo fatto ciò che avevo fatto per me stesso, non per la mia città o per la mia gente, non mi lasciai trasportare nella lettiga cerimoniale, bensì attraversai a piedi la città. La popolazione, nel vedere le mie mani e il mio volto dipinti, si ritraeva, i bambini cessavano i loro giochi, e una fanciulla, presso la porta cittadina, smise di suonare il flauto.
Uscii dalla città e scesi nella valle, lungo il medesimo sentiero dal quale un tempo ero venuto. Il cielo era di un azzurro intenso, nelle mie orecchie echeggiava il canto degli uccelli, le colombe della dea tubavano dolcemente. I lavoratori che sudavano nei campi sostarono rispettosi alla mia vista, tornando poi a curvare la schiena alla loro fatica.

Note[modifica]

  1. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937
  2. Incipit originale tratto dall'edizione di Garzanti del 1956.

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